Johnny L. Bertolio Università di Torino johnnylenny.bertolio@unito.it https://orcid.org/0009-0000-1324-1573
La serie Prisma, produzione italiana che ha esordito nel 2022 su Amazon Prime Video, è ispirata alla raccolta poetica Dolore minimo (2018) di Giovanna Cristina Vivinetto. Scritta a quattro mani da Alice Urciuolo e Ludovico Bessegato, che ne è anche regista, la serie mostra uno sguardo libero da pregiudizi e stereotipi sull’adolescenza italiana di questi nostri anni Venti. La queerness non è tematizzata, piuttosto attraversa le relazioni tra protagonisti e protagoniste come un dato di realtà: orientamento sessuale, identità di genere, transizione arricchiscono il racconto riallacciandosi, oltre i versi di Vivinetto, a una fiorente e spesso dimenticata tradizione letteraria, che risale alle Metamorfosi di Ovidio e al mito greco. L’articolo esamina lo spessore poetico della sceneggiatura e della colonna sonora, la prospettiva queer di alcuni episodi e gli effetti complessivi, nel solco della produzione di Bessegato dedicata all’adolescenza e iniziata con Skam Italia (dal 2018).
Prisma; Queerness; Mito; Ovidio; Metamorfosi; Transizione; Skam Italia.
The series Prisma (Prism) is an Italian production launched in 2022 via Amazon Prime Video (Cross Productions). It is loosely inspired by the poetry collection Dolore minimo (Minimal Suffering, 2018) by Giovanna Cristina Vivinetto. The four- handed screenplay has been authored by Alice Urciuolo and Ludovico Bessegato, who is also the director, and adopts a perspective on the current adolescent people without bias nor stereotypes. The queerness in particular is not presented as a theme. Yet it pervades the relations among characters as a fact of life. Sexual orientation, gender identity and transitioning enrich the plot with literary references both to Vivinetto’s poetry and to a flourishing and sometimes forgotten tradition dating back to Ovid’s Metamorphoses and to ancient Greek mythology. The essay examines the poetical substance of Prisma’s screenplay and soundtrack, the queer allure of several scenes and the overall effects, in the wake of Bessegato’s other teen drama Skam Italia (launched in 2018).
Prisma; Queerness; Myth; Ovid; Metamorphosis; Transitioning; Skam Italia.
Nel 2022, sulla piattaforma italiana di Amazon Prime Video è stata lanciata la prima stagione di Prisma, nuova serie ambientata e prodotta in Italia e scritta da Alice Urciuolo e Ludovico Bessegato, che firma anche la regia. Il duo autoriale è reduce dai successi di Skam Italia, serie del 2018 e tuttora in produzione (la sesta stagione è del 2024). Come affermato più volte nel corso di interviste (Bragadini, 2022) e recensioni (Rossini, 2022), la scrittura di Urciuolo e Bessegato ha maturato uno sguardo sul mondo adolescenziale lontano dal paternalismo di certe fiction del passato, che pur con lo scopo di diversificare le trame rischiavano di fissare i personaggi non conformi in ruoli macchiettistici o, al contrario, in eroi buoni, pronti a sacrificarsi per tutti. Se Skam Italia, legata alla versione norvegese originaria, qua e là mantiene un tono pedagogico, mostrando comportamenti idealmente corretti, Prisma abbandona completamente ogni allusione didascalica per abbracciare una prospettiva libera da pregiudizi e stereotipi come da modelli normativi: «Giornalisticamente e a livello di sintesi, a Prisma fa certamente comodo l’etichetta di serie queer, ma c’è una stratificazione di temi che la porta ben oltre. […] Il titolo stesso della serie fa riferimento all’impossibilità di dare una definizione della Gen Z: attraverso il prisma ci si accorge che la luce bianca in realtà è la somma di un’infinità di sfumature» (Bragadini, 2022). È lo stesso sguardo che è stato notato in Euphoria (HBO, 2019 e in produzione), serie anch’essa dedicata all’adolescenza, in particolare nelle vicende di alcuni personaggi non conformi che, con analoga enfasi sul corpo, mettono in discussione il modello eteronormativo e abilista (Bretones, 2022: 30-33).
Al centro di Prisma, composta di otto episodi, ciascuno intitolato a un diverso colore, ci sono due gemelli, Andrea e Marco, interpretati entrambi dallo stesso attore, dunque doppiamente esordiente, Mattia Carrano. I due personaggi riprendono il motivo letterario del Doppelgänger, ma anziché nella stessa persona (come Doctor Jekyll e Mr Hyde) la disintegrazione dell’identità e la scomposizione delle sue molteplici sfaccettature avvengono anche attraverso il gioco di rispecchiamenti tra i gemelli. Andrea è, dei due, quello apparentemente più estroverso e disinibito, pronto, fin dal primo episodio, a
sostituirsi a Marco, timido e ombroso, nei momenti di esitazione. Marco, invece, appare l’anello debole delle catene di relazioni in cui si trova: la famiglia; la scuola; la squadra di nuoto, i cui membri lo bullizzano in gruppo. Appartiene agli antefatti della trama il suo tentato suicidio, da cui lo ha salvato proprio Andrea. Intorno ai gemelli si muove una pletora di ragazzi e ragazze, studenti degli ultimi anni della scuola superiore, che parlano e agiscono oltre qualunque frontiera definitoria, desiderosi di vivere una vita piena che gli adulti, i familiari, forse perché più immaturi di loro oppure perché arroccati in ideologie e fedi granitiche, sono incapaci di decifrare. Spiccano, in particolare, Nina (l’attrice Caterina Forza), amica e confidente omosessuale di Andrea, e il trio musicale Klan Bruxelles (gli attori Lorenzo Zurzolo e Matteo Scattaretico con il vero rapper LXX Blood), che canta Mattoni, brano donato alla serie da Achille Lauro, i cui componenti, dietro il bullismo e l’affermazione di mascolinità, discorrono di identità fluide; Carola (l’attrice Chiara Bordi), una ragazza con disabilità (anch’essa non tematizzata) che subisce per poi sconfiggerli i pregiudizi tossici, diffusi anche tra gli adolescenti, sulle donne dalle relazioni plurime; infine, unico cedimento allo stereotipo del nerd, Fabio, detto Coccolino (Vittorio Aisa), personaggio-macchietta in cerca di autore, che si svilupperà pienamente solo nel finale. In una galassia intermedia tra gli adolescenti e gli adulti loro familiari si muove Raffa (Nico Guerzoni), operatore telefonico della LGBTQ Line e attivista, che sarà fondamentale per Andrea.
L’ambientazione della serie ha un ruolo determinante: non una città cosmopolita ma Latina, la Littoria di fondazione fascista (1932), nel cuore delle bonifiche delle aree malariche dell’Agro Pontino risalenti al governo di Benito Mussolini; negli episodi, Latina è in coppia con Sabaudia, città di mare fondata negli stessi anni e che invece ha mantenuto il nome del 1934.
F1. La Torre Littoria in piazza del Popolo a Latina (Amazon Prime Video, 2022).
Questo scenario di provincia – la direzione della fotografia è di Benjamin Maier – fa sì che sulle variegate vicende dei protagonisti e delle protagoniste si impongano le inconfondibili architetture razionaliste del Ventennio fascista, in particolare la Torre Littoria (F1), che vigila sulle confidenze diurne e notturne, e la stazione. A bordo di un treno regionale, Nina e Andrea raggiungono Roma, tra i boa e gli eyeliner della serata queer Muccassassina, ideata nel 1991 dal Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli di Roma. Il nonno di Nina, del resto, mussoliniano arrugginito, conserva cimeli fascisti e un pappagallino che, solo in sua presenza, gracchia «du-ce, du-ce». A Roma, invece, alla Tuba, libreria delle donne e locale inaugurato nel 2007 al Pigneto da un collettivo femminista e lesbico, Andrea e Nina incontrano l’autrice di una raccolta poetica che il ragazzo sta leggendo con trasporto: Giovanna Cristina Vivinetto, poetessa di Dolore minimo (2018). Grazie alla riconoscibilità dei luoghi e delle persone, durante tale incontro la finzione della serie si mescola con la realtà della pubblicazione letteraria: Andrea si fa firmare la propria copia di Dolore minimo direttamente da Vivinetto, che interpreta sé stessa nel corso di un reading delle sue poesie (F2) e poi li ritroverà, insieme con l’autore e influencer Francesco Cicconetti, anche lui nel ruolo di sé-in-transizione, alla serata Muccassassina.
F2. La poetessa Giovanna Cristina Vivinetto alla libreria Tuba di Roma (Amazon Prime Video, 2022).
Durante l’incontro alla presenza di Andrea e Nina (episodio 6), Vivinetto legge uno dei testi di Dolore minimo:
Tutto iniziò con l’avere confidenza. Eravamo solo noi due e il corpo.
Dapprima c’ero io soltanto,
lei venne poi con l’urgenza piccola
5 del vento, della pioggia, delle radici
– di tutto ciò, insomma, che non si può controllare ma semplicemente accade.
Riposava nell’ordine inviolato della natura. Forse da secoli
10 era iscritta in una qualche cellula tramandata col tempo fino a me. Perciò non seppi, non potei scacciarla. Dovetti, come ogni destino, prenderne atto. Forse era qui per salvarmi.
15 Era me più di quanto io stesso potessi appartenermi. Mi fidai. Così iniziai a darle spazio.
Al termine della scena, Vivinetto ringrazia i propri genitori e il loro indefesso sostegno, suscitando la commozione di Andrea, già ampiamente rispecchiatosi nei versi della poetessa e in difficoltà con la propria famiglia. La lirica letta nello spazio aperto della Tuba, come la raccolta da cui è tratta, racconta il percorso di transizione male to female dell’io e inevitabilmente affronta la questione del doppio, ancorandola alla dimensione fisica, corporea, non a sovrastrutture astratte o spirituali: «Eravamo solo noi due e il corpo» (v. 2). Il motivo del doppio si sposta così dallo stato di famiglia (i gemelli: tanto Andrea e Marco quanto Giovanna Cristina e il proprio fratello gemello) all’io in transizione, che tuttavia conserva la propria unità di fondo. Il suo è «come ogni destino» (v. 13) qualcosa che si compie inevitabilmente e che si iscrive «nell’ordine inviolato / della natura» (vv. 8-9), una natura liberata da quelle corrispondenze vincolanti imposte dalle ideologie transfobiche e piuttosto ispirata ai mondi in trasformazione degli antichi miti.
Nella raccolta Dolore minimo ricorre un esplicito riferimento a un mito di transizione, quello dell’indovino Tiresia che, per aver interrotto l’accoppiamento di due serpenti, animali sacri, per volontà degli dèi passa prima dal maschile al femminile, quindi dal femminile al maschile (Ovidius, 1988: III, 323-331). Per Vivinetto, il vero «dono» di Tiresia non è quello della profezia e della veggenza, ma l’aver sperimentato la transizione. Così Vivinetto:
Quando nacqui mia madre mi fece un dono antichissimo, il dono dell’indovino Tiresia:
mutare sesso una volta nella vita.
5 Già dal primo vagito comprese che il mio crescere sarebbe stato un ribelle scollarsi dalla carne, una lotta fratricida tra spirito
e pelle. Un annichilimento.
10 Così mi diede i suoi vestiti, le sue scarpe, i suoi rossetti; mi disse: «prendi, figlio mio, diventa ciò che sei
se ciò che sei non sei potuto essere».
15 Divenni indovina, un’altra Tiresia. Praticai l’arte della veggenza, mi feci maga, strega, donna
e mi arresi al bisbiglio del corpo
– cedetti alla sua femminea seduzione.
20 Fu allora che mia madre si perpetuò in me, mi rese
figlia cadetta del mio tempo,
in cui si può vivere bene a patto che si vaghi in tondo, ciechi
25 – che si celi, proprio come Tiresia, un mistero che non si può dire.
Nella poesia, Tiresia è il depositario di un «mistero» (v. 26) indicibile, che gran parte della società – suggerisce Vivinetto – non è disposta ad accogliere. Questo costringe chi lo possiede a un percorso centripeto ed evoca una cecità metaforica, opposta a quella, reale, dell’indovino, che invece, benché cieco, conosce la verità più nitidamente dei vedenti, come l’Edipo del mito. Il contrasto tra io-in-transizione e ambiente, con l’eccezione di alcuni familiari (la madre) e amici e amiche, si ripresenta nella serie Prisma, quando Andrea non è più disposto a nascondersi, ma intende comunicare e condividere il «mistero» di cui ha letto nella raccolta di Vivinetto.
La seconda poesia citata dell’autrice contemporanea, inoltre, elenca una serie di figure che in effetti nella letteratura canonica ricorrono in relazione con la transizione. Vivinetto mette sé stessa sullo stesso piano di chi è stata «maga, strega, donna» (v. 17), ovvero ha impersonato quei ruoli letterari, oltre che di genere, che nell’epica hanno tradizionalmente favorito la transizione dell’eroe maschio. Basti pensare ad Alcina nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (canti VI-VII), quando accoglie Ruggiero nella propria isola, o ad Armida, nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (canto XVI), la quale ospita Rinaldo nel proprio giardino. Entrambi gli eroi, spogliatisi delle armi e della mascolinità performativa e tossica, entrano in una sfera nuova, quella appunto della «maga, strega, donna», che li trucca, li inizia alle gioie della pace e dell’amore (Ariosto descrive Alcina e Ruggiero avvinghiati come edera intorno a una pianta: VII, 29), li accoglie, letteralmente, sotto e dentro nuovi panni. Della corte di Alcina fanno
parte creature da corteo bacchico, metà uomini e metà animali (scimmie, gatti, capri, centauri), compreso «chi femina è, chi maschio, e chi amendue» (VI, 62), un controcosmo queer davvero alternativo a quello della guerra e della società cavalleresca. Dal canto suo, Ruggiero si traveste, Alcina lo ingioiella come un bambolo, gli dona un abito raffinato da lei stessa tessuto (l’arte della tessitura accompagna anche le donne emancipate e ribelli come Alcina), ne fa il suo adone. Tutto ciò è intollerabile per la mentalità dominante, e Bradamante, la guerriera innamorata di Ruggiero e altro personaggio in cui femminilità e mascolinità si mescolano abbondantemente, chiede alla propria alleata magica, la più razionale Melissa, di intervenire. Questa a sua volta si traveste, da uomo, da Atlante, e si presenta a Ruggiero con fare minaccioso: predica contro l’«ozio» e la «lascivia» (VII, 53) adducendo gli argomenti propri dei predicatori medievali, paragona i gioielli a catene, fino ad apostrofare il futuro fondatore della dinastia estense come «già virile» (VII, 54) e a definirlo alla stregua di un eunuco («come / fosse in Valenza a servir donne avezzo»: VIII, 55).
Alcina è presentata come una meretrice, «concubina» di numerosi altri amanti (VII, 64), che ha disperso le proprie potenzialità materne. Ruggiero si vergogna, prova «scorno», vorrebbe sotterrarsi, si mostra vittima di «magica violenza» (VII, 67). Rinsavito, il riaffermato eroe, che pure non aveva mostrato di disprezzare la compagnia e il mondo di Alcina, riceve da Melissa un anello da parte di Bradamante. Grazie a questo strumento, Alcina gli appare come la donna più brutta e «laida» del mondo (VII, 72), una «puttana vecchia» (VII, 79). L’eroe torna eroe, si riarma (è l’inizio di una nuova fase), imbraccia lo scudo magico e si rimette ben saldamente al fianco la spada Balisarda, gesto che si può leggere come una riaffermazione – più metonimica che metaforica – della sua potenza sessuale.
Inoltre, le guerriere come Bradamante o Clorinda, con le loro ambizioni militari e il rifiuto dell’adeguamento alla norma di genere, sono state interpretate come una tappa, seppur più letteraria che giuridica, verso l’emancipazione femminile e il superamento delle barriere sociali consuete (Tomalin, 1982). Nei poemi epici si tratta solo di parentesi, destinate alla dissoluzione a causa del richiamo ai doveri. Nella poesia di Vivinetto, invece, la transizione prosegue, senza più il bisogno di un intervento esterno, in quanto la persona che la favorisce è la stessa che la incarna. Nella seconda raccolta vivinettiana, Dove non siamo stati (2020),
la transizione, sempre incentrata sul corpo, diventa esistenziale, non semplicemente di genere, imponendosi come una chiave di lettura del presente e in particolare della crescita.
A una tradizione millenaria si riaggancia Vivinetto parlando di «lei» («Forse da secoli […] fino a me», vv. 9-11 della lirica letta nella serie) e, in effetti, è sfogliando un’edizione illustrata e ridotta delle Metamorfosi di Ovidio, passata al vaglio della censura genitoriale, che Andrea (e Marco con lui) è stato esposto per la prima volta a racconti di transizione. Di quel ricco e modernissimo poema Andrea ha letto il mito di Ermafrodito e della ninfa Salmaci (o Salmacide) impetuosamente innamorata di lui e con lui congiuntasi in un nuovo corpo intersessuale. Secondo il racconto ovidiano (IV, vv. 285-388), Ermafrodito era figlio di Mercurio e Venere (da cui il nome, Hermes con Afrodite), nell’aspetto ricordava entrambi, presagio del futuro, ed era stato allevato dalle Naiadi sul monte Ida. A 15 anni, ancora ignaro del sesso, immersosi in uno stagno della Caria, Ermafrodito è ammirato da Salmaci, che abita quelle acque e brucia di desiderio dopo averne visto il corpo nudo. A quel punto si lancia contro di lui e gli si avvinghia – scrive Ovidio – come un serpente intorno all’aquila rapace, come edera intorno a un tronco (la stessa similitudine di Ariosto), come una piovra intorno alla preda (vv. 361-367). Artefice e insieme vittima della propria passione, Salmaci invoca gli dèi in soccorso, visto che il povero giovane vorrebbe sottrarsi alla sua presa, finché
Vota suos habuere deos: nam mixta duorum corpora iunguntur faciesque inducitur illis una; velut siquis conducat cortice, ramos
crescendo iungi pariterque adolescere cernit, sic, ubi conplexu coierunt membra tenaci,
nec duo sunt sed forma duplex, nec femina dici
nec puer ut possit, nec utrumque et utrumque videtur (Ovidius, 1988: IV, 373-379).
Gli dèi la ascoltarono. I due corpi si congiunsero e compenetrarono tanto da assumere un unico aspetto. Come, quando si racchiudono due rami in un’unica corteccia, si verifica poi che col crescere via via si congiungono e si sviluppano insieme, così quelli, avvinti nel tenace amplesso, non erano più due ma un corpo doppio, che non poteva essere definito
né maschio né femmina e non somigliava a nessuno dei due in particolare ma a tutti e due (Ovidio, 2008: pp. 245-247).
I versi ovidiani descrivono prima il nodoso contorcersi e congiungersi dei due corpi del ragazzo e della ninfa, quindi la loro transizione in un unico corpo, una
«forma duplex», un aspetto duplice che non è la mera somma dei precedenti, a cui pure assomiglia. Il mito ha poi un esito presentato come infausto (e già la prima transizione di Tiresia, come sopra osservato, era stata presentata da Ovidio come una punizione, senza che l’indovino avesse dato il proprio consenso): Ermafrodito otterrà che qualunque maschio («vir») si immerga in quella stessa fonte, ne esca, come lui, «semivir» (v. 386) o «semimas» (v. 381), ossia appunto ermafrodito, intersessuale, con membra rese più tenere.
Benché il mito ovidiano racconti appunto di intersessualità più che di transessualità, il fatto che nello stagno si assista a una transizione non reversibile, l’insistenza sulla dimensione corporea e il motivo del doppio attivano nel lettore Andrea risonanze con il proprio sé, avvertito anch’esso come sdoppiato.
La sceneggiatura della prima stagione di Prisma, più che illustrare percorsi psicologici o giuridici, rende visibile l’immaginata transizione del piccolo Andrea (qui interpretato da Roberto Di Palma) con una scena anfibia che ricorda da vicino il mito di Ermafrodito. Nell’episodio 8, sulle note di Lontano lontano di Luigi Tenco («E lontano, lontano nel tempo / qualche cosa negli occhi di un altro…»), otto anni prima dell’incontro con Vivinetto ma già esposto alle pagine di Ovidio, Andrea si rifugia in un ambiente bucolico e, per citare di nuovo la poetessa, inizia ad «avere confidenza» con il proprio corpo. Nel Giardino di Ninfa (F3), a Cisterna di Latina, un parco che già nel nome evoca antiche tracce precristiane, Andrea si spoglia e poi si immerge nelle acque limpide di uno stagno, dialogando non con una ninfa aggressiva e ostile come Salmaci, ma meditando, nel silenzio subacqueo, sulla propria sessualità.
F3. Il Giardino di Ninfa nella serie Prisma (Amazon Prime, 2022).
È una scena risolutiva di questa prima stagione, che in maniera molto efficace il regista gira in parallelo con un’altra fuga, quella dell’adolescente Andrea che intende rivelarsi finalmente alla persona di cui si è innamorato e che incontra su un autobus mentre è diretto proprio a Ninfa. L’episodio dell’infanzia, l’immersione ermafroditica diventa così figura inverata dalla rivelazione identitaria nel presente.
Nelle Metamorfosi di Ovidio non manca nemmeno il racconto di una pacifica e consapevole transizione female to male, riferita a Ifi, che per intervento della dea Iside, una delle grandi madri mediterranee, diventa ragazzo: «plusque vigoris adest, habuit quam femina. Nam quae / femina nuper eras, puer es» (Ovidius, 1988: IX, 790-791), «era più vigorosa di quanto fu mai una femmina. Infatti non eri più una femmina, o Ifi, ma un ragazzo!» (Ovidio, 2008: 573), conclude il poeta rivolgendosi direttamente a Ifi, dopo averne raccontato l’avvenuta metamorfosi e confermato il nome in quanto ambigenere, proprio come Andrea. Il latino si adatta docilmente alla metamorfosi sia nelle desinenze sia nei sostantivi, un adeguamento che mette in difficoltà il padre di Vivinetto (una poesia di Dolore minimo è dedicata alla declinazione maschile/femminile degli aggettivi e alla coniugazione dei verbi riferiti alla figlia) e che dà una voce nuova al corpo dell’io lirica. Questo è un aspetto soltanto lasciato intravedere nella prima stagione di Prisma, mentre è prevedibile che si affrontino sviluppi ulteriori nella seconda, grazie alla formazione e alla presa di coscienza finale di Andrea.
Quel che conta in questa sede è che il mito, per quanto rivisitato attraverso un’edizione per ragazzi, ha consentito di illuminare nella sceneggiatura una tradizione letteraria, una genealogia queer, che intersecando campi che oggi consideriamo ben distinti sotto ogni punto di vista, consente a persone diverse di trovare un pieno rispecchiamento parallelamente ai modelli normativi. Il poema ovidiano, del resto, si conferma rappresentante e attivatore di un policentrismo tematico che in varie epoche ha consentito di sfidare le rigidità di canoni e prescrizioni. Nel Seicento barocco, ad esempio, Giovan Battista Marino, autore dell’Adone, si rifece proprio alle Metamorfosi, di cui recuperò il principio di «seriazione» (lo stesso delle serie attuali), rifiutando di isolare o privilegiare singoli episodi, come illustrato dal suo più fine esegeta, padre Giovanni Pozzi:
In Ovidio gli episodi sono sì concatenati con un certo ordine tematico e con abili accorgimenti diegetici; ma l’episodio conta relativamente; conta assai di più la metamorfosi, non in quanto separata conclusione delle singole favole, ma in quanto elemento comune a tutta la catena delle favole. Perciò l’insieme delle metamorfosi esprime un significato cosmogonico che non hanno le singole metamorfosi prese separatamente, come non l’avrebbe la serie di tutte le favole se ad esse si sottraesse l’atto finale della metamorfosi (Pozzi, 1988: 51).
Lo stesso Marino, inoltre, pensò di intitolare un proprio poema Le trasformazioni e con questo titolo traduceva quello di Ovidio, di cui ammirava l’impianto cosmogonico. Molti miti delle origini, non solo europei, sono nati nel segno del queer: dall’androgino del Simposio di Platone a Omeyotl, divinità della civiltà mexica che assommava in sé un principio creatore maschile e uno femminile.
Nel Novecento, reduce dalla Seconda guerra mondiale e travolto dall’inafferrabilità labirintica del mondo, Italo Calvino, nella lezione americana dedicata alla Leggerezza, scrive che
per Ovidio tutto può trasformarsi in nuove forme; anche per Ovidio la conoscenza del mondo è dissoluzione della compattezza del mondo; […] per Ovidio c’è una parità essenziale tra tutto ciò che esiste, contro ogni gerarchia di poteri e di valori. Se il mondo di Lucrezio è fatto d’atomi inalterabili, quello d’Ovidio è fatto di qualità, d’attributi, di forme che definiscono la diversità d’ogni cosa e pianta e animale e persona; ma questi non sono che tenui involucri d’una sostanza comune, che, – se agitata da profonda passione – può trasformarsi in quel che vi è di più diverso (Calvino, 2002: p. 14).
Parola vivissima nella serie Prisma, «trasformazione» segna persino le scelte della colonna sonora, un’accuratissima partitura musicale dovuta alla consulenza di Ginevra Nervi: oltre alle struggenti canzoni di Luigi Tenco, parte del consolidato repertorio italiano e, come abbiamo visto, piegate a nuove significazioni, John Maus interprete di Molly Nilsson (dunque una performance anch’essa «tra i generi») e il pianista Sampha, la cui No One Knows Me (Like the Piano) accompagna e scandisce le tappe della ricerca di Andrea: in questo caso il pianoforte dell’originale si trasforma, nella serie, nell’io sfaccettato di Andrea:
«You would show me I have something, some people call a soul». Il ragazzo infatti utilizza il titolo della malinconica canzone come pseudonimo in un profilo social con cui interagisce con i ragazzi, lasciando intendere un’identità che a tutti sfugge. È un sostegno prezioso, quello della colonna sonora, che lungi dall’essere un elemento accessorio, partecipa e sottolinea i momenti di svolta della trama e, nell’episodio finale, dà allo spettatore la chiave per decodificare a ritroso le enigmatiche esitazioni e i dubbi del protagonista Andrea. Com’è ormai consueto nelle serie dalla sceneggiatura meditata, i brani musicali sono esposti a un processo di rilettura, di risignificazione, che li attualizza e adatta al contesto della trama, ora confermando ora modificando il significato originale del titolo e del testo.
L’esitazione e il dubbio, poi, dall’ambito musicale, semantico e linguistico si spostano a quello materiale, fisico, e pervadono la trama, con ripercussioni sui personaggi stessi della sceneggiatura e sulle loro relazioni. In mancanza di una formazione affettiva a scuola o in casa, molti di loro, pur avendo familiarità con il vocabolario delle sfumature della queerness, non per questo hanno già risposte preconfezionate a qualunque domanda. In una scena molto toccante, mentre Nina e Andrea sono sul punto di avere un rapporto intimo, la prima ammette: «Io adesso non so bene cosa fare» (episodio 6). Questa frase ingenua ma sincera condensa lo spirito della sceneggiatura di Prisma e lo sguardo del duo autoriale. L’analisi della queerness, come gli Studi queer mostrano da decenni ormai (Butler, 2014), non offre né pretende responsi precostituiti, validi per qualunque situazione; si fonda piuttosto su un procedimento decostruttivo, volto ad evidenziare e mettere in discussione le etichette, le norme, le categorie, a partire da genere e orientamento sessuale, ma non solo. Come ha scritto l’autrice
italiana Teresa Ciabatti in un post su Instagram del 22 settembre 2022, in Prisma trionfano «il talento, e la possibilità – non solo tematica ma anche fisica – di essere tanti, ciò che si vuole, ciò che si desidera». A queste pluralità sfuggenti non servono esorcismi ma ascolto e condivisione, servono antologie e manuali, romanzi e poesie, immagini e serie in cui riconoscersi e con cui provare a rappresentarsi. È possibile che, dietro il racconto di Prisma, si celi la volontà di invitare anche gli adulti meno attrezzati ad aprirsi a un dialogo, se non altro ad ammettere, come Nina, di non saper bene cosa fare, o dire, in certe situazioni, evitando, al contrario, di alimentare paure e fobie irrazionali quando qualcosa li coglie impreparati.
Nella sceneggiatura di Prisma, alla transizione di Andrea, che segue per definizione un itinerario in movimento, si adeguano tutti gli elementi che la sorreggono: dalle fonti letterarie all’ambientazione, dalla scelta dello stesso attore per i due gemelli protagonisti alle colonne sonore di varie epoche e generi. In questo senso, il titolo trova una più chiara giustificazione: prismatico non è solo il fascio di luce multicolore che effettivamente balugina dai vetri taglienti di una coppa usata da Marco per tentare il suicidio e in cui, ignaro, Andrea si immerge; prismatico è ancora di più l’universo affettivo e sentimentale degli adolescenti della Generazione Z, che riescono a rispecchiarsi in maniera molto più diretta e variegata nelle storie dei miti antichi che non in certi prodotti deteriori dei media contemporanei. I deboli e a volte tormentati legami familiari sono sostituiti da genealogie letterarie e musicali basate su una non meno intensa passione, su un non meno intenso coinvolgimento interiore.
La queerness in quanto processo decostruttivo e, insieme, strumento di rappresentazioni plurali attraversa le relazioni adolescenziali dei personaggi di Prisma e, diversamente dal vacuo concetto di fluidità, suggerisce uno sguardo più consapevole e meditato su chi in essa si riconosce personalmente, come appunto Andrea e Nina. Queer, in questo senso, sono dunque sia l’io-in- transizione di Andrea sia la modalità rappresentativa della sceneggiatura. Ciò permette di evitare l’equivoco di far annegare le identità non conformi nella melassa indistinta e retorica del «Siamo tutti uguali e diversi» o del «Siamo unici», motti molto diffusi che appiattiscono le diversità e nascondono diseguaglianze,
ingiustizie e discriminazioni storiche. Come aveva intuito Ovidio, l’intero universo materiale è in trasformazione; non tutti però «transitano» come Ermafrodito- Salmaci o come Ifi (e Andrea). Serie di altissima qualità estetica e attoriale come Prisma svelano quelle secolari filigrane queer che, al contrario di quanto si possa pensare, non sono frutto di presunte mode recenti ma vantano tracce antichissime nei prismatici racconti dei miti.
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